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Immagine del redattoreSimona

Il paradosso dell'inclusione

In questo periodo la parola inclusione credo sia tra quelle più utilizzate e abusate per descrivere differenti ambienti, soprattutto quello scolastico.

La pedagogia, l’educativa scolastica e la stessa didattica sono tutte aree scientifiche che oggi si trovano sempre più spesso a dover interfacciarsi con la neurodiversità e a chiedersi come fare per poter essere davvero inclusive…o almeno si pongono il dubbio.

Ma partiamo dal significato della parola inclusione.

In matematica l’inclusività è quella relazione che si crea tra due insiemi quando ogni elemento di un insieme fa parte dell'altro (def.).

Ciò vuol dire che esiste un insieme maggiormente ampio e grande, che va a contenerne uno più piccolo i cui elementi costitutivi sono tutti in comune con l’insieme di partenza.

Il punto di inizio è l’uguaglianza di alcuni elementi.

Questo è facile immaginarlo per delle categorie concrete. Una manciata di ciliegie può essere facilmente inserita all’interno del gruppo delle fragole, delle rose, di alcune magliette, scarpe o matite colorate se tutti questi insiemi appartengono al grande gruppo del colore rosso.

Con le persone diventa facile effettuare operazioni di questo tipo con caratteristiche anch’esse concrete: occhi, indumenti, oggetti e così via.

La vera sfida si ha nel momento in cui parliamo di inclusione sociale, andando a toccare elementi quali la relazione, l’interazione, le capacità di conversare, di condividere, di imparare…cioè entriamo nel mondo del funzionamento personale.

Cosa succede spesso nella pratica di tutti i giorni?

Che il gruppo di persone più grande, principalmente normodotato, si avvale della capacità di inglobare la persona neurodiversa a partire da elementi di uguaglianza neurotipici, più propriamente pensati per una persona “normale”.

Ed ecco che troviamo il paradosso. Tu neurodiverso devi entrare nel gruppo seguendo i dettami e le modalità decise dal gruppo che ti ingloba... e dico deve perché ormai l’inclusione è diventata un’imposizione. E naturalmente in tutto questo scordarti del tuo funzionamento.

Nella mia esperienza lavorativa ho assistito a davvero tanti paradossi. La giornata dedicata alla consapevolezza per l’autismo dove lo studente con la sua neurodiversità non avrebbe potuto partecipare perché le attività sarebbero state in teatro, ambiente nuovo, in mezzo alla confusione. L’imposizione di una didattica principalmente orale a scapito di una stupefacente competenza visiva dell’alunno attraverso cui imparava davvero tantissime cose. La festa di fine anno che dopo differenti prove positive in un luogo, il giorno precedente viene spostata improvvisamente in una palestra mai vista. Insegnanti ed educatori che valutano la persona dalle competenze relazionali e continuano a sottolinearne la difficoltà. Un ambiente di lavoro pensato come openspace senza soluzioni alternative rispetto ad esigenze personali che salverebbero da meltdown pesanti.

L’inclusione diviene così una pratica di concessione dal gruppo più grande. Il significato che passa è “ti concediamo di far parte di questo gruppo alle nostre condizioni”.

Per chi è neurodiverso questo implica una vita costellata da una serie infinita di difficoltà, mascheramenti e sicuramente fallimenti. Con grande perdita di reali competenze e potenzialità, tenute nascoste e bistrattate.


Qual è la soluzione?

Una pratica più complessa, che alla lunga da benefici maggiori e più duraturi per tutti coloro che ne vengono coinvolti.

La creazione di una fitta rete di relazioni attraverso l’utilizzo di più strumenti e modalità di lavoro, che vadano a dar risalto ai differenti modi di funzionare e alle differenti modalità di esprimere le proprie competenze.

Impossibile dite?

Eppure, io sono riuscita a vedere più volte tale pratica e a vedere come tutti coloro che erano coinvolti ne traessero un grandissimo benessere e un altrettanto beneficio personale.

Insegnanti che utilizzano metodi visivi con tutti gli alunni per accompagnarli nei vari momenti della giornata. Un alunno che porta un modellino lego di un circuito elettrico e ne spiega le componenti in modo efficace ai compagni di classe. La ragazza che finalmente esprime con un’opera artistica la sua casa interiore, il suo mondo e il suo funzionamento e partecipa ad una mostra scolastica. Un marito che chiede aiuto per trovare la strategia efficace per parlare con sua moglie degli imprevisti della vita.

La pratica dell’inclusione implica la conoscenza della neurodiversità come valore aggiunto nella realtà di ogni giorno.

Senza questo valore tutto ciò che noi diciamo essere inclusivo, non è che un’imposizione di una forma di funzionamento distante dalla persona. Una violazione alla sua stessa essenza vitale.

E allora perché non mettere segnali visivi in tutte le scuole?

Perché non studiare gli spazi scolastici e anche lavorativi per aiutare i sensi di tutti, dando serenità e quindi maggior spazio di espressione di potenzialità?

Perché non pensare ad un metodo didattico che inglobi strumenti diversificati per ogni materia, per consentire a tutti di trovare il metodo più adeguato a sé stessi?

Perché non pensare in modo divergente?

Cosa ne dite? Sarebbe possibile?

Lasciate una vostra opinione qui sotto!


Vi aspetto il prossimo mercoledì!

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