Parlare di diagnosi credo sia una delle cose più difficili da fare per chi appartiene o fa parte anche in modo indiretto dell'autismo.
Molti pensano che ricevere una diagnosi sia un modo per etichettare la persona, aggiungere una descrizione che ne mini le potenzialità presenti e future. Un modo per limitarla.
Eppure, ricevere la giusta diagnosi è fondamentale. Perché finalmente si dà un nome reale a quel tipico funzionamento che caratterizza la persona autistica. Ora si può dire chi si è, dopo anni e anni di incomprensioni, nomi sbagliati o persino negazioni a ciò che si è sempre stati.
Per parlare di diagnosi credo fermamente che l’unico modo sia farlo attraverso le frasi di coloro che questa diagnosi l’hanno ricevuta. Solo così è possibile vedere attraverso i loro occhiali le difficoltà e il mondo in cui anche noi viviamo.
“Quindi non sono pazzo?!”
Questa frase per me è stata davvero un grande macigno. Ho visto la sofferenza indicibile di chi avevo di fronte, che per anni non ha fatto altro che maturare rabbia, frustrazioni nella comprensione delle relazioni e una solida costruzione di una barriera che dividesse dal mondo e che proteggesse il suo essere.
Con questa frase è divenuto per me concreto quello sguardo che molta gente lancia nei confronti di chi non è “normale”, di chi è diverso. Ma soprattutto quel dolore che ha accompagnato per anni la persona, che ha inevitabilmente ceduto a quello sguardo e ha creduto fermamente di essere pazzo.
Mi sono chiesta quanto la società “normale” sia nel concreto esclusiva e nello stesso istante espulsiva.
In quelle quattro parole ho visto una sofferenza indicibile.
Con la diagnosi è stato finalmente possibile iniziare a costruire una piccola breccia in quel muro isolante e incominciare a far entrare informazioni, dati, dettagli. Per poi assistere al racconto della propria storia ed essenza da anni misconosciuta e tenuta nascosta per evitare quello sguardo altrui, che indicava la sola pazzia come possibilità di essere.
“Io sapevo. Solo tutti gli altri non lo sapevano”
In una sola riga è racchiusa la storia di anni di ricerche nel trovare qualcuno che convalidasse un modo di sentire e sentirsi. Una battaglia durata anni e costituita di scontri con differenti specialisti, ma anche di definizioni differenti e di gran lunga lontane dalla vera essenza vitale. Depressione, funzionamento ossessivo-compulsivo e oppositivo provocatorio, ansia generalizzata.
Nomi in cui non vi è stato un riconoscimento completo, perché da anni si avevano già tratto le informazioni necessarie che descrivessero con maggior completezza chi si è.
L’incomprensione forte che traspare dalle frase, ma anche la forza decisionale personale, ha portato a trovare finalmente qualcuno che convalidasse il proprio essere e che consentisse di sentirsi finalmente nella propria casa, nel proprio KI.
“Finalmente. Finalmente appartengo anch’io”
Ancora una volta la società “normale” ha colpito. Così mi sono trovata a pensare quando ho ascoltato questa frase. Ancora una volta quello che noi chiamiamo “normalità” ha espulso dal proprio gruppo un individuo e si è preclusa la possibilità di essere veramente neurodiversa.
La sofferenza di non rientrare in categorie di “normalità”, purtroppo nuovamente, aveva segnato profondamente una persona.
Finalmente, però, un nuovo nome aveva concesso di rientrare in un gruppo, con caratteristiche simili e tratti accostabili. Finalmente ci si poteva sentire compresi e appartenenti. Non più soli e isolati.
E poi una diagnosi ha portato una persona a trovare finalmente un modo di comprendere il mondo circostante. Una dicitura scritta su un foglio, con un codice specifico, ha portato ad un centro specializzato, dove la neurodiversità individuale ha trovato un canale per esprimersi e per finalmente iniziare a splendere dopo anni difficili.
Ricordo con grandissima emozione lo sguardo altrui di felicità nel comprendere cosa si sarebbe andato a fare grazie all’utilizzo di un’immagine visiva. E ricordo con ancora più trepidante emozione il momento in cui quell’essenza vitale ha trovato un modo per comunicare con il mondo circostante, perché finalmente si era compresi e accettati con le proprie caratteristiche.
Cosa ne ho tratto da queste esperienze?
Che la diagnosi è il punto di partenza di un percorso che possa essere di accettazione di sé e del proprio funzionamento, della propria essenza. Un percorso in cui la persona possa finalmente trovare-svelare-ritrovare sé stessa, se ben accompagnata con presenza, supporto, ammirazione e concretezza.
Che giudicare la diversità altrui non fa altro che perpetrare sofferenza a scapito proprio di quella persona che sta cercando in tutti i modi di vivere e trovare la sua serenità.
Il giudizio non è altro che un modo per nascondere la paura che abbiamo nell’incontrare l’altro. Paura di venir anche noi giudicati diversi e quindi espulsi dal fan club della “normalità”.
Il sogno è quello di vedere una società che sia finalmente neurodiversa, che accolga tutte le sue sfaccettature e caratteristiche e che consenta finalmente di creare gruppi in continuo collegamento e mutamento gli uni con gli altri. Un’appartenenza plurima e finalmente eguale nella diversità. Dove la diagnosi non sia altro che uno dei tanti modi di esprimere sé stessi e le proprie caratteristiche.
Spero di avervi anche in piccola parte contagiato in questo sogno!
E se siete curiosi rispetto a cosa sia il KI, vi invito a leggere il primo post pubblicato nel blog!
Vi aspetto come sempre al prossimo mercoledì!
Dite la vostra tra i commenti!
credits: vecteezy.com
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